IL CALESSE DI ZI' BASTIANO
Il colore del calesse di zì bastiano era di un arancio tendente al rosso. Ai lati, le due grandi ruote, reggevano un ampio sedile. Nel centro di ogni ruota c’era un cerchio più piccolo, anch’esso di legno; e da lì si dipartivano, con un preciso ordine geometrico, tanti raggi che ad uno ad uno andavano ad appoggiarsi dentro il cerchio grande, cosicché quando il calesse si muoveva, i raggi, piano piano, ruotando pazzamente si inseguivano tutt’ intorno e girando, girando, ti portavano in giro per il mondo.Ed era un gran bel mondo quello di zì bastiano.
Spaziava in lungo e in largo per tutto il perimetro della città., ed ogni stagione offriva una buona scusa per scorazzare lungo le sue campagne; e si dovevano raccogliere le fave fresche, appena nate dentro i loro baccelli, e si doveva raccogliere il fieno per il cavallo.
Questo sentore di fieno è fra i ricordi più forti della mia vita: il suo odore, il suo profumo che pare ti trascinasse dentro le viscere della terra; ci sono delle rare volte in cui capita di trovarsi in campagna, nel momento in cui tutti gli odori delle erbe tagliate si frammischiano fra di loro, creando un sapore e un tepore che salendo su dalla terra, accarezza il tuo corpo per entrarti nell’anima. Si imprime per sempre nel talamo nascosto dei tuoi pensieri, e poi ti basterà passare per certi canti, a certe ore, per certe vie, e l’abisso dei ricordi si spalanca e senti grilli e rossi papaveri e nuvole sottili che si rincorrono furiosamente intanto che il sole impazza nelle ore del suo dominio.
Questo fu l’odore del fieno raccolto per me da zì bastiano.
Le mandorle: dapprima quelle tenere, piccoline, anzi no! Prima ancora c’erano i fiori, bianchi rosati deliziosamente profumati, con il contadino che indispettito lasciava fare per la bimba del suo amico, che issata sulle sue braccia si divertiva a fare man bassa dei giovani rami colmi di fiori e di tenere foglioline.
E poi il fiore si trasformava in una piccola mandorla morbida e vellutata, con un cuore gonfio di rugiada che a metterlo in bocca ti si squagliava in un paradiso di verdi delizie.La mangiavi così com’era, la mandorla, perché la buccia che la copriva sembrava fatta di pioggia, di nuvole e di erba.
E c’erano i giorni in cui bisognava andare a raccogliere le mandorle durette, quelle da schiacciare, con il frutto che sapeva di latte e che ti impastava la bocca con il sapore di tutti i dolci futuri.
E’ in autunno non c’erano forse i fichi d’india da andare a prendere?
Il cielo era pieno di nuvole nere sparse lungo dune e colline che si offrivano ad orizzonti sterminati. Nelle pietraie infrattate e nascoste, ancora più celate fra pali spinosi, c’erano i frutti del fico d’india: come grossi coriandoli a manciate erano sparsi in quel groviglio di spine, di pietre e di terra franosa; giallo arancio rosso verde viola, schizzi di colore, immerso dentro bui profondi e densi verdi.
Sotto il cielo grigio di pioggia, tra lontani boati di tuoni e improvvise saette di luci, il cavallo imbronciato e pauroso, muoveva di qua e di là il calesse, anch’io oscillavo le mie paure di qua e di là e zì bastiano urlava qualche verso per chetarci tutti e due, poi arrivava rosso e sudato trascinando sacchi di spine; con le mani e un coltello apriva i frutti e mangiavamo. Per tutto il ritorno piagnucolavo e mi grattavo sui vestiti, sui sacchi, ma le spine leggere, piccole e pungenti me le ritrovavo dappertutto dentro un calesse pieno di fichi d’india, ma era un piangere allegro e mangereccio.
Del mondo di zì bastiano io ne ero entusiasta, e quando mi diceva: vieni, usciamo con il calesse, io correvo ebbra di gioia e di felicità.
L’animale che veniva imbrigliato, non so cosa fosse: un mulo, un asino, un cavallo; si! era un cavallo, l’amico fraterno di zì bastiano, e lui gli parlava: gli diceva cosa doveva fare, dove andare, che si portasse bene. Il cavallo ascoltava guardandolo dritto negli occhi, sollevava le zampe facendo rumori di zoccoli, e diceva che sì, anche questa volta poteva fidarsi. E lo lisciava, lo accarezzava, lo accudiva con la tenerezza di un padre privo di figli. Anche per me c’erano le stesse premure e le stesse minacce, ed anch’io lo guardavo dritto negli occhi, ed anch’io scalpitavo per la fretta, per la gioia accettando tutte le sue raccomandazioni.
Il mio biondo e spagnolesco zio, con il viso cotto dal sole, agganciava pazientemente il rosso calesse, leggero, della levità di una farfalla, legandolo ben bene al cavallo.
Io mi inerpicavo sul predellino per tuffarmi in quel nido di panche e cuscini, entrando dentro una culla fatta di ragnatele di legno. Lievemente tutto dondolava: il cavallo, il calesse, i miei ricci, i miei vestiti; e zì bastiano, sfiocchettando con la frusta e con le labbra, dava l’avvio per il grande viaggio.
Appresso ci si portava il cibo per il cavallo e il calesse dietro era pieno di fieno; campanelli e ciancianeddi trillavano dappertutto e nappe rosse e nastri colorati svolazzavano per l’aria inseguendo il calesse, era un piccolo trono fatato, pieno d’aria e di vento, pieno dei miei strilli di gioia e di paura.
Si usciva dalla città per andare in campagna, lontano; e c’era sempre qualcosa da inseguire, erano le ragioni per la libertà infinita che si doveva raccogliere e godere. Il cavallo trottava allegramente con il muso dentro il suo sacco pieno di carrube, divideva con noi il cibo, e mangiando carrube lasciavamo per la strada un profumo dolce e saporoso, profumi di fieno, di erbe, di fiori .
Andavamo incontro a nuvole plumbee, nuvole alte come castelli, merlati da lunghe sete, vagabonde come noi. Certe volte il vento si fermava, era incerto, si metteva paura quando mio zio metteva le redini nelle mie mani e diceva guida tu!
Allora io con l’orgoglio impavido della mia età, mi ergevo fiera e impettita, urlando ordini al cavallo, che trotterellando faceva finta di imbizzarrirsi per correre come un pazzo. Criniera al vento, narici dilatate, coda imbandierata, come spaventato dal mio vociare ordini, tirare redini, ridere, urlare. E tutti quelli che incontravamo, con carri, macchine, calessi, tutti si facevano da parte, salutandoci e scappellandosi.
Mio zio Sebastiano, che zio non era, era il marito di mia zia che oltre ad essere una zia, essendo la sorella di mio padre, era anche una specie di madre adottiva.
Non avendo avuto io, una madre. Cosicché zio Sebastiano oltre a non essere mio zio, non era nemmeno mio padre. Ma io ero la sua unica figlioletta, non avendo egli dei figli, così ero per lui tutti i figli che il suo grande desiderio di paternità esigeva.
Non era molto alto, ma per me era un grande eroe: il domatore di cavalli!
I capelli riempivano la sua testa dei bagliori del tramonto, era un’ondulazione morbida e riccia, il colore del miele denso che dal profondo castano si trasformava in biondo miele; si poteva definire rossastro. I regali ancestrali tra fenici e iberici davano al suo corpo la robustezza corpulenta del contadino.
Non era grasso ma pieno, la sua pelle intima, dove il fiato del sole non si era mai posato, era bianca, quasi lattea.
Aveva un viso ovalmente quadrato, con sopraciglia folte, zigomi pieni, rossi di sole e di sangue, labbra screpolate sempre pronte al sorriso, compagne di due occhi piccoli, infossati ma scintillanti letizia; i denti bianchi brillavano dentro i suoi sorrisi.
Era un Hidalgo spagnolo o un peone messicano o forse era un ricordo persiano trasportato da navi etrusche, ma so che era tutto quello che di bello forte violento e dolcissimo, la vita allora mi offriva.
La sua mano era tozza e forte e la mia anima là dentro ci stava in gran conforto.
Quando mi diceva di uscire, correvo come verso una favola, era lui che mi portava a cinema, a mangiare dolci e gelati. Quando la fiera del patrono impazzava era lui a mettermi sui cavalli a dondolo, dentro baracconi pieni di magia.
In piazza lungo le strade, quando non si respirava più per la calca, mi issava sulle sue spalle e da lassù osservavo il brulicare della gente e così quieta e sicura mi addormentavo sulla sua spalla.
Zio Bastiano non era solo calesse e sole e aria e prati fioriti; zio Bastiano era anche zolfo, buio, paura, terrore.
La sua settimana trascorreva lenta e cadenzata dentro le viscere della miniera.
Usciva all’alba, a volta sentivo i rumori e gli odori dei suoi vestiti. Indossava pesanti scarponi, ed ai suoi movimenti ancora stanchi e assonnati l’aria si riempiva dell’odore pregno e soffocante che lo zolfo a zaffate spargeva per la casa.
Prendeva il suo pastrano, la sacca, l'acitolena e usciva nel buio dell’alba.
Gli scarponi per strada rimbombavano sempre più forti, per perdersi e disperdersi nella notte; accomunandosi e confondendosi con il ritmo del suono di tutti gli altri scarponi, che prima ancora dell’arrivo della luce serpeggiavano per i vicoli della città.
La loro strada andava lontano, verso una triste campagna bruciata e arsa, dentro un ventre che della notte conservava tutte le sue ombre.
E prima ancora che l’aurora si trasformasse in alba il buio della terra li aveva già ingoiati.
Era il tramonto ad accogliere la loro fatica, a portare la loro stanchezza verso una cena, un letto, uno stanco riposo.
Zio Bastiano viveva questa sua vita con le gemme dentro al cuore; lì dentro c’erano diamanti di luce, zaffiri di cieli, topazi di soli, smeraldi di erbe e il calore del suo cavallo che aspettava ogni giorno la sua carezza e il suo cibo; cheto e zitto carruba dopo carruba sapeva che sarebbero arrivati come sempre i giorni in cui poter correre nuovamente abbracciati verso campi di gioia.
Ciao, finalmente sono riuscita a passare!
RispondiEliminaBaci e mazzolini di rose
ciao bellissima e chiarissima chiara, grazie per le rose, veramente deliziose........ un profumo leggero e paradisiaco................
RispondiEliminabaci e fiori di mandorlo tutti per te...........
Grazie per aver condiviso questa pagina ,dal tuo libro dei ricordi.Saluti a presto
RispondiEliminagrazie a te per averlo letto.
RispondiEliminabuonanotte.