giovedì 21 aprile 2011

VERSO IL 25 APRILE: IRMA BANDIERA

Verso il 25 aprile:Irma Bandiera


Irma Bandiera (Bologna, 8 aprile 1915 – Bologna, 14 agosto 1944) è stata una partigiana italiana, Medaglia d'oro al valor militare (alla memoria).
Di famiglia benestante, divenne staffetta partigiana nella VII brigata GAP Gianni Garibaldi di Bologna col nome di battaglia di Mimma.
Catturata dai fascisti dopo aver trasportato armi nella base di Castelmaggiore della sua formazione, venne torturata e infine fucilata al Meloncello di Bologna il 14 agosto 1944. Il suo corpo fu esposto dai fascisti sulla strada adiacente alla sua abitazione per un intero giorno.
In suo onore, nell'estate del 1944, una formazioni di partigiani operanti a Bologna prese il nome Prima Brigata Garibaldi "Irma Bandiera".

Medaglia d'oro al valor militare
«Prima fra le donne bolognesi a impugnare le armi per la lotta nel nome della libertà, si batté sempre con leonino coraggio. Catturata in combattimento dalle SS. tedesche, sottoposta a feroci torture, non disse una parola che potesse compromettere i compagni. Dopo essere stata accecata fu barbaramente trucidata e il corpo lasciato sulla pubblica via. Eroina purissima degna delle virtù delle italiche donne, fu faro luminoso di tutti i patrioti bolognesi nella guerra di liberazione.»
— Meloncello, 14 agosto 1944.

Questo articolo è pubblicato nei termini della GNU Free Documentation License. Esso utilizza materiale tratto da Wikipedia, l'enciclopedia libera.


Uno splendido esempio di donna  libera e coraggiosa
 

lunedì 18 aprile 2011

Il solare sui tetti vale tre centrali nucleari
Ma il governo è indifferente 


Assosolare attacca frontalmente Romani, tacciato di essere indifferente all'imprenditoria del settore. "Sui tetti delle famiglie c'è un potenziale in grado di soddisfare il 6% del fabbisogno nazionale, ma il ministero non ci sente"




Assosolare non va per il sottile. Venerdì scorso l’Associazione Nazionale dell’Industria Solare Fotovoltaica ha attaccato frontalmente il ministro dello Sviluppo Economico Paolo Romani, accusato di essere “indifferente” all’imprenditoria del settore. La bozza del quarto conto energia, quello che deciderà i nuovi incentivi per l’energia del sole, è in discussione ormai da un mese e gli operatori del fotovoltaico cominciano a perdere la pazienza. “Nel giro di un paio di settimane daremo certezze al settore”, aveva dichiarato Romani il 9 marzo. Dalla promessa del ministro sono passati più di trenta giorni e ancora non si sa nulla. “I tempi sono largamente scaduti”, ha dichiarato ieri Greenpeace Italia in una nota. “L’averli disattesi è la prova ultima dell’incompetenza del governo a dirigere un settore che dà lavoro a più di 100 mila persone”.

Il 5 aprile, nel corso dell’assemblea annuale, Assosolare ha definito una posizione unitaria degli operatori del settore: conferma del terzo conto energia per gli investimenti già avviati, riduzione morbida degli incentivi senza tetti annuali per i nuovi impianti, decremento del 5% delle tariffe per impianti superiori a 200 kWp (Chilowatt picco, l’unità di misura con cui si misura l’energia prodotta da sole e vento. Diversa da quella provenienta da fonti carbonfossili e nucleare) nel 2011 e nessun taglio per i piccoli impianti (sotto i 200 kWp). Dal 2012 riduzione dell’8% per impianti di piccola taglia e del 10% per quelli superiori ai 200 kWp. Una posizione che distingue nettamente il piccolo fotovoltaico, quello che viene installato sui tetti, dai grandi parchi solari a terra. Numeri chiari, analisi dettagliate che sono state inviate al ministro Romani, con la richiesta di un incontro conclusivo al Ministero dello Sviluppo Economico, ma non hanno ancora ricevuto una risposta. “La mancata risposta alle reiterate richieste di un incontro ci porta a constatare la volontà del ministro di interrompere ogni relazione e condivisione proprio nel momento della finalizzazione del testo”, ha dichiarato Gianni Chiaretta, presidente di Assosolare. “Se questo silenzio si dovesse tradurre nuovamente in un provvedimento a danno del settore, il ricorso a tutte le azioni di denuncia sarà inevitabile sia a livello nazionale che internazionale”.

Tra gli operatori maggiormente interessati dal nuovo conto energia ci sono le società che puntano sul solare “diffuso” con pannelli installati sui tetti delle abitazioni, che permettono alle famiglie di produrre autonomamente l’energia che consumano e di vendere alla rete i kW prodotti in eccesso. “Riteniamo utile che non si faccia di tutta l’erba un fascio”, ha dichiarato al fattoquotidiano.it Gianluca Lancellotti, amministratore delegato di ENER20, una società con sede a Milano che finanzia e installa pannelli fotovoltaici sulle case. “Dovrebbe essere possibile ridurre le speculazione dei grossi impianti senza per questo limitare lo sviluppo del neonato solare domestico, che ha un potenziale rivoluzionario”.

In effetti i dati elaborati da ENER20 parlano chiaro. Un piccolo pannello da 3 kWp produce mediamente 4.000 kWh all’anno. Se cinque milioni di famiglie italiane (su un totale di 22 milioni) installassero sul tetto di casa un pannello, si potrebbero produrre 20 miliardi di kWh per una potenza installata di 20.000 MW: il 30% circa del fabbisogno energetico complessivo delle famiglie (stimato intorno ai 67 miliardi di kWh) e il 6% del fabbisogno nazionale (pari a 317,6 miliardi di kWh). “Se pensiamo che le grandi centrali a gas hanno una potenza di 800 MW e i reattori nucleari di circa 1.600 MW, possiamo dire che sui tetti delle famiglie italiane c’è il potenziale equivalente di numerose centrali tradizionali o nucleari e di almeno tre reattori nucleari in termini di energia prodotta”, continua Lancellotti. “Nelle nostre case si può veramente compiere la terza rivoluzione industriale, con la trasformazione delle famiglie da centri di consumo a centri di produzione, eliminando le perdite di rete e dando stimolo all’occupazione locale con manodopera specializzata. Ci auguriamo che per questa rivoluzione il governo non voglia attendere oltre”.


http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/04/14/il-solare-sui-tetti-vale-tre-centrali-nuclearima-il-governo-e-indifferente/104086/   questo è il link da dove l'ho preso.

Grandi opere:Ora e Sempre Resistenza di Piero Calamandrei


Ora e Sempre Resistenza

Lo avrai
camerata Kesselring
il monumento che pretendi da noi italiani
ma con che pietra si costruirà
a deciderlo tocca a noi.
Non coi sassi affumicati
dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio
non colla terra dei cimiteri
dove i nostri compagni giovinetti
riposano in serenità
non colla neve inviolata delle montagne
che per due inverni ti sfidarono
non colla primavera di queste valli
che ti videro fuggire.
Ma soltanto col silenzio dei torturati
Più duro d'ogni macigno
soltanto con la roccia di questo patto
giurato fra uomini liberi
che volontari si adunarono
per dignità e non per odio
decisi a riscattare
la vergogna e il terrore del mondo.
Su queste strade se vorrai tornare
ai nostri posti ci ritroverai
morti e vivi collo stesso impegno
popolo serrato intorno al monumento
che si chiama
ORA E SEMPRE
RESISTENZA

Piero Calamandrei




martedì 12 aprile 2011

IL SILENZIO DELLA NOTTE

                                                 






                                       

                                           

IL SILENZIO DELLA NOTTE


Si sono calmati tutti
E adesso la notte è mia.

Silenzio.

Il silenzio della notte
È pastoso e vellutato
Scorre sottile
Pieno di elettrici fruscii.

Il silenzio della notte
Non è il silenzio del giorno.
È un silenzio pulito
Ovatta e avvolge silenziosamente
I muri di tutte le case
Sfila come un corteo muto
Lungo le strade.

Il rombo della moto che passa
Scorre con lenta accelerazione
Fino a spegnersi laggiù dove
La strada muore
Ingoiata da altre case.

La luna.

È doveroso parlare della luna
Che rigida e ferma
Invidia il vagabondare dei cani
Affamati
Alla ricerca di piccoli esseri
Da sbranare.
A volte si sbranano fra loro
E mi ululano il loro terrore
Sotto il balcone.

Adesso il silenzio della notte
È mio
Un silenzio cupo
Dai lenti ruggiti di macchine
Che strusciano sull’asfalto.

domenica 10 aprile 2011







L' ERETTEO DI ATENE         LOGGIA DELLE CARIATIDI



Eretteo

L'antico tempio, elegante costruzione composita a nord dall'Acropoli
Subito dopo l’ingresso nell’Acropoli, alla sinistra, si trova l'Eretteo (Erechthion), costruito fra il 421 e il 395 a.c.
Il tempio in stile dorico e ionico presenta una pianta asimmetrica eterogenea, causata dal dislivello del terreno e dalla presenza di numerosi luoghi di culto racchiusi, i più importanti dei quali erano dedicati ad Atena Poliade, Eretteo, Poseidone e Cecrope.
I costi di realizzazione del tempio furono altissimi: costruito interamente in marmo pentelico era ornato da ricche decorazioni. L'Eretteo era anche la mèta del corteo delle Grandi Panatenee. Nei secoli successivi, fu inoltre adoperato come chiesa e deposito militare.
Orientato verso il Partenone, potete notare la Loggia delle Cariatidi, noto anche come portico delle Cariatidi. L'architrave è sostenuta da sei statue di oltre 2 m raffiguranti figure femminili. Quelle esposte adesso sono solo copie: cinque delle originali rimosse nel 1977 a causa del deterioramento si trovano al Museo dell'Acropoli, mentre la sesta fu portata via da Lord Elgin.
La facciata ovest dell’Eretteo è stata ricostruita dai romani. Nel cortile adiacente, un olivo secolare ricorda il luogo dove era piantato l'olivo sacro di Atena. La leggenda narra che qui spuntò il primo ulivo della città quando la dea Atena toccò la terra con la sua lancia.
Dietro sporge una roccia che offre una bellissima vista sul Plaka e su parte della città romana, dal quale sono visibili l’arco di Adriano e il tempio di Zeus.

( preso da:  GRECIA TURISMO)


 ( Il pezzo qui sotto è TRATTO DA WIKIPEDIA)
Nonostante la grande importanza del culto tributato ad Atena nel grande tempio (prima l'ekatónpedon, poi il Partenone) sulla sommità dell'Acropoli, questo santuario, dedicato alla dea Atena Poliade (protettrice della città), era legato a culti arcaici e alle più antiche memorie della storia leggendaria della città, costituendo il vero nucleo sacro dell'Acropoli e dell'intera città. In questo luogo si sarebbe infatti svolta la disputa tra Atena e Poseidone: vi si custodivano le impronte del tridente del dio su una roccia, un pozzo di acqua salata da cui sarebbe uscito il cavallo, dono del dio, e l'olivo, donato dalla dea Atena alla città. Qui il re Cecrope, metà uomo e metà serpente, avrebbe consacrato il Palladio, la statua della dea caduta miracolosamente dal cielo. Il santuario ospitava inoltre le tombe di Cecrope, di Eretteo e un luogo di culto dedicato a Pandroso, la figlia di Cecrope amata dal dio Ermes.
In epoca romana prese il nome di "Eretteo" (Erekteíon, ovvero "colui che scuote"), dall'appellativo di Poseidone.
Nei pressi, tra l'attuale edificio e il Partenone era sorto inoltre il tempio arcaico dedicato ad Atena Polias, protettrice della città, distrutto dall'invasione persiana nel 480 a.C.
Questo tempio fu sostituito da un nuovo edificio, iniziato nel 421 a.C. e terminato nel 407 a.C., in marmo pentelico, opera dell'architetto Filocle. La necessità di ospitare i diversi culti tradizionali, collocati su un'area con un forte dislivello (più elevata a sud-est e più bassa di circa 3 m a nord-ovest) determinò una pianta insolita.
Il tempio si compone di un corpo rettangolare anfiprostilo (ovvero con colonne nella parte anteriore e posteriore del tempio, solitamente 4), ma con gli intercolumni (spazi tra le colonne) chiusi da setti murari dotati di ampie finestre. L'interno era suddiviso in due celle a livello diverso: quella orientale, più alta, che ospitava il Palladio, e quella occidentale, più in basso, suddivisa in tre vani, che ospitava, i culti di Poseidone e del mitico re Eretteo. Al corpo centrale si addossano la loggia con le Cariatidi a sud, che custodisce la tomba del re Cecrope, e un portico a nord, più sporgente del corpo centrale verso ovest, che proteggeva la polla di acqua salata fatta sgorgare da Poseidone . Davanti al basamento pieno che sorregge le colonne della fronte occidentale si trovavano l'ulivo di Atena e la tomba di Pandroso.
Le colonne si presentano particolarmente snelle ed eleganti e il tempio era ornato da una raffinata decorazione, (basi delle colonne, la fascia decorativa che sormonta il muro laterale, con un motivo di fiori di loto e palmette, il fregio della trabeazione, in pietra scura di Eleusi, sul quale erano applicate figure scolpite in marmo bianco).
Le statue delle Cariatidi, forse opera dello scultore Alcamene, sono attualmente sostituite da copie, mentre gli originali sono stati conservati al riparo nel Museo dell'Acropoli. Una delle cariatidi angolari, rimossa da lord Elgin, si trova oggi al British Museum di Londra.
Il tempio è stato descritto da Pausania, insieme con l'Acropoli, nel libro I della sua Periegesi.



PERCHè QUESTO POST?

Perchè questo post?  perchè questo piccolo tempietto mi è sempre piaciuto, il suo stile la sua eleganza la sua leggerezza quasi eterea, queste donne fanciulle che con altera  levità sembrano reggere il peso dei sogni....
e poi quando un giorno ci siamo incontrate, sono stata lì ferma ad ascoltare i loro racconti, mi avevano riconosciuta, si ricordavano di me, mi avevano visto attraverso le foto, intanto che io le ammiravano loro guardavano me. 
Che buffo, io pensavo di guardare un pezzo di carta, invece loro mi vedevano e capivano i miei sogni.
Le care fanciulle nel corso dei secoli avevano affinato ancora di più le loro sensibilità.
Da allora dal nostro primo ed unico incontro, sono passati tanti anni, ma ogni volta quando c'incontriamo dentro un pezzo di carta, una musica dolce un profumo un sentore d'antico di nuovo d'eternità, ci fa volare dentro i nostri sogni.



domenica 3 aprile 2011

                        IL  CALESSE DI ZI'  BASTIANO



 

                                                                                                                                                                              
                                   IL  CALESSE  DI  ZI'   BASTIANO

Il colore del calesse di zì  bastiano era di un arancio tendente al rosso. Ai lati, le due grandi ruote, reggevano un ampio sedile. Nel centro di ogni ruota c’era un cerchio più piccolo, anch’esso di legno; e da lì si dipartivano, con un preciso ordine geometrico, tanti raggi che ad uno ad uno  andavano ad appoggiarsi dentro il cerchio grande, cosicché quando il calesse si muoveva, i raggi, piano piano, ruotando pazzamente si inseguivano tutt’ intorno e girando, girando, ti portavano in giro per il mondo.Ed era un gran bel mondo quello di zì bastiano.
Spaziava in lungo e in largo per tutto il perimetro della città., ed ogni stagione offriva una buona scusa per scorazzare lungo le sue campagne; e si dovevano raccogliere le fave fresche, appena nate dentro i loro baccelli, e si doveva raccogliere  il fieno per il cavallo.
Questo sentore  di fieno è fra i ricordi più forti  della mia vita: il suo odore, il suo profumo che pare ti trascinasse dentro le viscere della terra; ci sono delle rare volte in cui capita di trovarsi in campagna, nel momento in cui tutti gli odori delle erbe tagliate si frammischiano fra di loro, creando un sapore e un tepore che salendo su dalla terra, accarezza il tuo corpo per entrarti nell’anima. Si imprime per sempre nel talamo nascosto dei tuoi pensieri, e poi ti basterà passare per certi canti, a certe ore, per certe vie, e l’abisso dei ricordi si spalanca e senti grilli e rossi papaveri e nuvole sottili che si rincorrono furiosamente intanto che il sole impazza nelle ore del suo dominio.
Questo fu l’odore del fieno raccolto per me da zì bastiano.
Le mandorle: dapprima quelle tenere, piccoline, anzi no! Prima ancora c’erano i fiori, bianchi rosati deliziosamente profumati, con il contadino che indispettito lasciava fare per la bimba del suo amico, che issata sulle sue braccia si divertiva a fare man bassa dei giovani rami colmi di fiori e di tenere foglioline.
E poi il fiore si trasformava in una piccola mandorla morbida e vellutata, con un cuore gonfio di rugiada che a metterlo in bocca ti si squagliava in un paradiso di verdi delizie.La mangiavi così com’era, la mandorla, perché la buccia che la copriva sembrava fatta di pioggia, di nuvole e di erba.
E c’erano i giorni in cui bisognava andare a raccogliere le mandorle durette, quelle da schiacciare, con il frutto che sapeva di latte e che ti impastava la bocca con il sapore di tutti i dolci futuri.
E’ in autunno non c’erano forse i fichi d’india da andare a prendere?
Il cielo era pieno di nuvole nere sparse lungo dune e colline che si offrivano ad orizzonti sterminati. Nelle pietraie infrattate e nascoste, ancora più celate fra pali spinosi, c’erano i frutti del fico d’india: come grossi coriandoli a manciate erano sparsi in quel groviglio di spine, di pietre e di terra franosa; giallo arancio rosso verde viola, schizzi di colore,  immerso dentro bui profondi e densi verdi.
Sotto il cielo grigio di pioggia, tra lontani boati di tuoni e improvvise saette di luci, il cavallo imbronciato e pauroso, muoveva di qua e di là il calesse, anch’io oscillavo le mie paure di qua e di là e zì bastiano urlava qualche verso per chetarci tutti e due, poi arrivava rosso e sudato trascinando sacchi di spine; con le mani e un coltello apriva i frutti e mangiavamo. Per tutto il ritorno piagnucolavo e mi grattavo sui vestiti, sui sacchi, ma le spine leggere, piccole e  pungenti me le ritrovavo dappertutto dentro un calesse pieno di fichi d’india, ma era un piangere allegro e mangereccio.
Del mondo di zì bastiano io ne ero entusiasta, e quando mi diceva: vieni, usciamo con il calesse, io correvo ebbra di gioia e di felicità.
L’animale che veniva imbrigliato, non so cosa fosse: un mulo, un asino, un cavallo;     si! era un cavallo, l’amico fraterno di zì bastiano, e lui gli parlava: gli diceva cosa doveva fare, dove andare, che si portasse bene. Il cavallo ascoltava guardandolo dritto negli occhi, sollevava le zampe facendo rumori di zoccoli, e diceva che sì, anche questa volta poteva fidarsi. E lo lisciava, lo accarezzava, lo accudiva con la tenerezza di un padre privo di figli. Anche per me c’erano le stesse premure e le stesse minacce, ed anch’io lo guardavo dritto negli occhi, ed anch’io scalpitavo per la fretta, per la gioia accettando tutte le sue raccomandazioni.
Il mio biondo e spagnolesco zio, con il         viso cotto dal sole, agganciava pazientemente il rosso calesse, leggero, della levità di una farfalla, legandolo ben bene al cavallo.
Io mi inerpicavo sul predellino per tuffarmi in quel nido di panche e cuscini, entrando dentro una culla fatta di ragnatele di legno. Lievemente tutto dondolava: il cavallo, il calesse, i miei ricci, i miei vestiti; e zì bastiano, sfiocchettando con la frusta e con le labbra, dava l’avvio per il grande viaggio.
Appresso ci si portava il cibo per il cavallo e il calesse dietro era pieno di fieno; campanelli e ciancianeddi trillavano dappertutto e nappe rosse e nastri colorati svolazzavano per l’aria inseguendo il calesse, era un piccolo trono fatato, pieno d’aria e di vento, pieno dei miei strilli di gioia e di paura.
Si usciva dalla città per andare in campagna, lontano; e c’era sempre qualcosa da inseguire, erano le ragioni per la libertà infinita che si doveva raccogliere e godere. Il cavallo trottava allegramente con il muso dentro il suo sacco pieno di carrube, divideva con noi il cibo, e mangiando carrube lasciavamo per la strada un profumo dolce e saporoso, profumi di fieno, di erbe, di fiori .
Andavamo incontro a nuvole plumbee, nuvole alte come castelli, merlati da lunghe sete, vagabonde come noi. Certe volte il vento si fermava, era incerto, si metteva paura quando mio zio metteva le redini nelle mie mani e diceva guida tu!
Allora io con l’orgoglio impavido della mia età, mi ergevo fiera e impettita, urlando ordini al cavallo, che trotterellando faceva finta di imbizzarrirsi per correre come un pazzo. Criniera al vento, narici dilatate, coda imbandierata, come spaventato dal mio vociare ordini, tirare redini, ridere, urlare. E tutti quelli che incontravamo, con carri, macchine, calessi, tutti si facevano da parte, salutandoci e scappellandosi.
Mio zio Sebastiano, che zio non era, era il marito di mia zia che oltre ad essere una zia, essendo la sorella di mio padre, era anche una specie di madre adottiva.
Non avendo avuto io, una madre. Cosicché zio Sebastiano oltre a non essere mio zio, non era nemmeno mio padre. Ma io ero la sua unica figlioletta, non avendo egli dei figli, così ero per lui tutti i figli che il suo grande desiderio di paternità esigeva.
Non era molto alto, ma per me era un grande eroe: il domatore di cavalli!
I capelli riempivano la sua testa dei bagliori del tramonto, era un’ondulazione morbida e riccia, il colore del miele denso che dal profondo castano si trasformava in biondo miele; si poteva definire rossastro. I regali ancestrali tra fenici e iberici davano al suo corpo la robustezza corpulenta del contadino.
Non era grasso ma pieno, la sua pelle intima, dove il fiato del sole non si era mai posato, era bianca, quasi lattea.
Aveva un viso ovalmente quadrato, con sopraciglia folte, zigomi pieni, rossi di sole e di sangue, labbra screpolate sempre pronte al sorriso, compagne di due occhi piccoli, infossati ma scintillanti letizia; i denti bianchi brillavano dentro i suoi sorrisi.
Era un Hidalgo spagnolo o un peone messicano o forse era un ricordo persiano trasportato da navi etrusche, ma so che era tutto quello che di bello forte violento e dolcissimo, la vita allora mi offriva.
La sua mano era tozza e forte e la mia anima là dentro ci stava in gran conforto.
Quando mi diceva di uscire, correvo come verso una favola, era lui che mi portava a cinema, a mangiare dolci e gelati. Quando la fiera del patrono impazzava era lui a mettermi sui cavalli a dondolo, dentro baracconi pieni di magia.
In piazza lungo le strade, quando non si respirava più per la calca, mi issava sulle sue spalle e da lassù osservavo il brulicare della gente e così quieta e sicura mi addormentavo sulla sua spalla.
Zio Bastiano non era solo calesse e sole e aria e prati fioriti; zio Bastiano era anche zolfo, buio, paura, terrore.
La sua settimana trascorreva lenta e cadenzata dentro le viscere della miniera.
Usciva all’alba, a volta sentivo i rumori e gli odori dei suoi vestiti. Indossava pesanti scarponi, ed ai suoi movimenti ancora stanchi e assonnati l’aria si riempiva dell’odore pregno e soffocante che lo zolfo a zaffate spargeva per la casa.
Prendeva il suo pastrano, la sacca, l'acitolena e usciva nel buio dell’alba.
Gli scarponi per strada rimbombavano sempre più forti, per perdersi e disperdersi nella notte; accomunandosi e confondendosi con il ritmo del suono di tutti gli altri scarponi, che prima ancora dell’arrivo della luce serpeggiavano per i vicoli della città.
La loro strada andava lontano, verso una triste campagna bruciata e arsa, dentro un ventre che della notte conservava tutte le sue ombre.
E prima ancora che l’aurora si trasformasse in alba il buio della terra li aveva già ingoiati.
Era il tramonto ad accogliere la loro fatica, a portare la loro stanchezza verso una cena, un letto, uno stanco riposo.
Zio Bastiano viveva questa sua vita con le gemme dentro al cuore; lì dentro c’erano diamanti di luce, zaffiri di cieli, topazi di soli, smeraldi di erbe e il calore del suo cavallo che aspettava ogni giorno la sua carezza e il suo cibo; cheto e zitto carruba dopo carruba sapeva che sarebbero arrivati come sempre i giorni in cui poter correre nuovamente abbracciati verso campi di gioia.






SAGGEZZA

CONFERME

El sueno de la razon produce monstros


CORNOVAGLIA

CORNOVAGLIA

STELLE D'ORO

S'è CAPITO CHE ADORO I MICI???????????????????


era una notte buia e tempestosa

OSCAR WILDE

Sogna come se dovesi vivere sempre, vivi come se dovessi morire oggi.
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Quando si è giovani si pensa che i soldi siano tutto, quando si è vecchi... si scopre che è così!
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La vita non è altro che un brutto quarto d'ora, composto da momenti squisiti
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É sempre con le migliori intenzioni che si sono prodotte le opere peggiori
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La vita è una cosa troppo seria perché si possa parlarne sul serio
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L'unico modo per liberarsi da una tentazione è cedervi

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ULISSE


Fatti non foste a viver come bruti
ma per seguir virtute e canoscenza"






e volta nostra poppa nel mattino
de’remi facemmo ali al folle volo,