lunedì 8 novembre 2010

IL CAPRAIO


 

                            

In quei tempi lontani c’era un’ uomo che, di solito in là con gli anni, veniva chiamato il capraio, e capraio lo era veramente; trascinando le sue capre girava di casa in casa bussando di porta in porta; arrivava al tramonto e prima che il sole ritirasse i suoi raggi, dalla campagna si avviava al ritorno, cosicché quando arrivava  le sue ombre si stagliavano nette, irte di nere corna; nei vicoli era entrato il quasi buio e lontano l’abbacinante luce del meriggio vestiva di nero il suo pesante andare. I campanacci piccoli e leggeri che pendevano dentro il caldo delle capre annunciavano da lontano il loro arrivo, dilon dilon e lo zoccolio delle capre ti faceva scendere giù, gia prima del suo bussare.
Lui si chinava dinanzi a te per  nascondersi dentro la sua capra, e lei stava ferma, solo ogni tanto qualche zoccolo vibrava sulla terra, e tu sapevi che li sotto dentro quella grotta calda e profumata di carne e di peli, vi scorreva un rivolo di piacere  e la scintillante  ciotola, di perlaceo alluminio, goccia dopo goccia si riempiva, schiumava di candida schiuma che  traboccando sulle sue mani ruvide e callose  le imbeveva di caldo tepore.
Si rialzava da li sotto tutto arruffato e pieno di peli, anche dalla bocca uscivano peli perché le sue labbra avevano sussurrato parole complici che correvano piene di intese fra lui e la madre pelosa,  egli versava il bianco umore dentro la tua ciotola e il latte correva denso, caldo e profumato e berlo proprio in quel momento nel quasi buio quando il vicolo  faceva scintillare l’azzurro cielo dentro la bianca marea, col profumo della capra che tanfava mistici aromi, con la sua bocca che masticava ancora gli ultimi fili d’erba, bere quel latte caldo e teporoso era come bere i giorni che le capre passavano al pascolo.
 Entravi dentro quei sottili fili d’erba e bevevi cieli e fiori, farfalle e formiche, bevevi i cardi e gli sterpi che popolavano la valle dell’imera, bevevi i sogni che la capra sonnacchiosa aveva fatto sotto il sole e bevevi i suoi salti mortali fra un dirupo e l’altro; dentro il latte c’era l’aroma del finocchio, il profumo ristretto della menta selvatica, c’era l’odore dell’erba matura e della restuccia secca e c’era lo stupore dei vuoti infiniti che la capra ammirava nel suo lungo vagabondare e c’era il terrore dei cani che la stringevano al passo. La sera il capraio non sapeva che bevendo il suo latte avrei saputo tutto di lui e della sua giornata.        
Ma in via tortorici il mio capraio si trasformò, smise i vestiti giornalieri e mi si mostrò in tutto il suo essere. All’inizio della via, sulla destra, c’era un piccolo spiazzo e in fondo  c’era una vecchia piccola casa con una larga porta, un giardino l’avviluppava nascostamente alle  spalle. Tutte le mattine all’alba la porta si apriva e a frotte ne uscivano capre su capre, e la sera a frotte le capre ritornavano dall’altro capo della via per sparire una dopo l’altra in un bell’ordine di disordinato caos. Cosa c’era lì dentro? Chi guidava quell’orda di capre che ad ogni alba zoccolavano il selciato e tutte le sere lo rizzoccolavano. Le guidava lui, il Pan dal piede caprino, quella era la sua casa e lì ci viveva la sua famigliola di capre e di umani, di moglie, di figli e di capre.
Il capraio era piccolo e tozzo, robusto, allegro e vivace, sorridente. Sulle sue spalle, con noncuranza, come fosse un capretto buttato lì per caso gli si era appollaiata una bella gobba tonda e un po’ appuntita, e col suo bastone nodoso accompagnava i versi che indirizzava alle capre. Fu lui a portare il latte nel nostro portone mattina e sera; il suo latte era denso e cremoso e mi piaceva a volte scendere giù con una bella fetta di pane e farmela inzuppare direttamente da sotto la capra, il latte schizzava via da quei grossi e rosei capezzoli che lui accarezzava dolcemente con una lunga carezza per poi stringerli sempre più forte fra le sue grosse dita, fino a spremerli con forza e a lungo facendone uscire liquidi bianchi e zuccherini. Ma la capra non si turbava, stava lì ferma e attenta sapeva che quello era il suo compito di donna-capra, così come il mio compito di bambina-capra, era di quello di suggere la fetta di pane piena di mollica calda umida e dolce.
Dei momenti la strada risuonava di belati e di zoccoli, pazze e isteriche le capre si rintuzzavano spingendosi e urtandosi, certi momenti la  sera appena nata era allietata dallo scampanellio dei campanacci nascosti nel pelo dei loro colli, preannunciavano il loro arrivo nel dolce silenzio della sera.
Improvvisamente a volte c’era uno scalpitio di zoccoli nervosi e subito dopo un cozzare di spade, uno sbattere di ferri, un fragore di metalli usciva dalle loro corna che sbattute le une contro le altre sprizzavano scintille di fuoco , l’abbaio dei cani non bastava a calmarle, i loro occhi come ambra nascosta, ruotavano e saettavano colmi di follia. Non so perché, ogni tanto le mie capre urlavano tutta la loro rabbia e, alzandosi in piena potenza, intrecciavano le corna preda di antichi furori. In questo branco di apparente letizia un caprone andava e veniva calmo e tranquillo, il suo pizzetto lungo lo distingueva dalle femmine, brucava la sua vita con calma silenziosa, unico maschio seguiva il suo harem certo delle sue femmine. Ma lui mai mi ha raccontato storie di magia.
Una volta io stavo tornando a casa e loro stavano tornando a casa, io mi fermai di botto, ma esse mi ignorarono, mi attraversarono e proseguirono tranquille il loro viaggio, una di loro mi vide e si fermò.
La mia capra si fermò proprio di fronte a me, era alta quanto me, i suoi occhi si aprirono e io vi entrai dentro, erano occhi liquidi colore del miele di castagno, quello che mio padre portava dalla campagna con le arnie piene di un untume dolce e scivoloso, miele che noi mangiavamo tirando su cucchiai colmi di ambra vitrea e trasparente pregna di vivida luce gialla; con le arnie spezzate e cacciate in bocca, masticate lentamente si che il miele alla fine incerava tutta la bocca. I suoi occhi  mielati avevano in mezzo  una scintilla di vivido oro, era una linea verticale che si apriva lungo il suo occhio e che si chiudeva facendoti vedere i suoi mondi  verdi, pieni di grigi, pieni di sole e di pioggia. La mia capra mi portava nella sua valle lungo il suo fiume, un fiume da lei prediletto perché sapeva di sale, ed io la dentro mi perdevo perché vivevo il sogno che di giorno sognavo dietro la grata del mio balcone.
Con lei saltavo su dirupi e costoni, dritta e veloce saliva su monte Capodarso, attaccata alle sue corna correvamo verso i Lannari e poi giù lungo i ciottoli del Salso per fermarsi a brucare l’erba nella piana dei meloni. Quando pioveva a dirotto ci divertivamo a vedere scendere rivoli di pioggia lungo i solchi dei calanchi.
La capra Amantea mi guardò, fissò i miei occhi con i suoi occhi grandi come due vecchie fave mature, e masticando i suoi ultimi fili d’erba mi spaventò. Ci scontrammo testa contro testa ed io morii di paura, anche lei morì per il lungo racconto che mi fece, il suo pelo era intriso di fango, e le sue corna andavano di qua e di là, si innalzarono al cielo inanellandosi in infiniti giri di spirali, come dritte pale rugose nascevano sulla sua testa  per risalire in morbide volute, giravano attorno a se stesse in infinite volte per finire su in cielo come scintillanti punte diamantine.
La mia capra possedeva poderose corna che mi mostrò fiera della sua potente bellezza; e la sua bocca parlava, parlava masticando ancora fili d’erba, e il suo dolore mi invadeva, permeava le mie carni intanto che i suoi zoccoli battevano a terra ritmi lontani. Bevvi il latte che il piccolo Pan gobbo e caprigno, riccioluto e ridanciano spremeva da sotto quel ventre, in un subbuglio di seni e capezzoli, bevvi il suo latte come lo bevvi dalla nascita, e mi immersi e nuotai dentro il fumo dei suoi vapori serotini, la mia capra di favola mi fece dono di  tutta la passione di una terra pregna di magico vuoto.
Furono quelli gli ultimi anni delle capre girgentane, dopo di allora cominciarono a sparire dalle nostre campagne. Ci fu il latte delle mucche mammellose, il latte che più di niente sa, che tanto bene si conserva in frigorifero; e così non vidi più le mie mitiche capre, apparvero piccole capre che fiere ed altere sognano sempre di diventare un giorno qualcosa che non saranno mai.                                                  
                                              










 

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